Un po' di storia

La storia delle comunità ad orientamento psicoanalitico per bambini ed adolescenti affonda le sue radici in una tradizione costellata da impegno sociale, politico e culturale. Nel suo divenire essa si intreccia con la storia e la passione del movimento psicoanalitico.
In Europa negli anni ’60 del secolo scorso si sviluppò una cultura espressa in movimenti ideologici, politici e sociali a difesa della dignità umana e contro la diseguaglianza, la segregazione e l’isolamento. Un atteggiamento critico nei confronti delle istituzioni manicomiali portò esperienze quali la psichiatria di settore in Francia, le Comunità Terapeutiche sorte nei paesi anglosassoni e la chiusura degli ospedali psichiatrici o manicomi in Italia con la Legge 180/1978.
Nel decennio successivo, per riparare i danni provocati dall’istituzionalizzazione del dolore mentale sorgono le prime comunità di tipo familiare per minorenni (Ducci 1999).
Bambini e adolescenti sofferenti prima affidati a dispositivi di contenimento sociale trovano ora forme di supporto territoriale caratterizzate da strutture intermedie, le quali a loro volta si pongono al limite dell’intervento terapeutico classicamente inteso.

L’istituzione recludente, in quanto concetto, è ciò che viene superato nell’impostazione comunitaria dell’aiuto. Gli antichi “Istituti” erano alla stregua di spazi giudiziari dai quali ci si liberava solo col pentimento. Detto trattamento morale, che si nasconde tuttora nell’“assistenzialismo umanitario”, doveva isolare il bambino e l’adolescente ribelle, definito folle, e sottoporlo a una custodia normalizzante, isolandolo e sorvegliandolo.
La condizione di sofferenza, specie se imbevuta di povertà economica e sociale, era divenuta un crimine che ben si adattava alla punizione dell’istituzionalizzazione. La natura dell’internato era stata ricostruita appunto per adattarla a questo crimine (Goffman 1961).
Tutto ciò viene quindi gradualmente decostruito e nel tempo molti piccoli gruppi di giovani medici, psicologi, assistenti sociali, giudici minorili ed educatori hanno trovato nella psicoanalisi un modello atto a coniugare impegno sociale e metodo terapeutico di alti spessore ed efficacia. La difficoltà e la virtù dell’applicazione di un modello psicoanalitico in comunità per bambini e adolescenti spesso giudicati “difficili” insistono entrambe nella acquisizione della capacità di superare scogli ideologici nelle componenti della dicotomia “psicoanalisi e società”, per fruire del bene alto offerto dalla prima quando applicata a “bassa soglia” con soggetti molto sofferenti e in condizioni evolutive “fase specifiche”. In detti scogli s’insediano difese: nella società ad ammettere l’alta incidenza del mondo interno nella determinazione della natura umana e più che altro a ribaltare dal curato al curante l’oggetto primo d’indagine, trasformazione e cura; nella psicoanalisi a lavorare con livelli di sofferenza talmente alti da mettere in crisi il dispositivo psichico dell’analista stesso.
Con ciò non possiamo dimenticare che anche la psicoanalisi ha comunque attivamente partecipato al passaggio dagli “istituti” alle comunità principalmente attraverso le influenze degli “Indipendenti” britannici. Tra i contributi vi è la pubblicazione del lavoro di Bowlby Maternal care and mental health (1951), l’esperienza di Winnicott durante la seconda guerra mondiale presso gli istituti per bambini evacuati dalla città (1984) e il lavoro di Bion (1942) presso il Northfield Hospital con i traumatizzati di guerra (Ferruta et al. 1998; Ferruta et al. 2012).
In Italia dal 1995 inoltre, con la diretta collaborazione di Baldini, l’Unione delle Comunità di Tipo Familiare di Roma e del Lazio e poi il Coordinamento Nazionale Comunità Minori (CNCM) hanno percorso un camino esperienziale – costituito da formazione, supervisione e lavoro in gruppo – a orientamento psicoanalitico che porta a considerare la questione dei minori ospiti in termini di sofferenza psichica e sua cura attraverso la lettura transferale degli affetti emergenti nei rapporti tra bambini e ragazzi, educatori e istituzioni attive per competenza (scuole, tribunale, servizio sociale ecc). Sono stati così organizzati formazione permanente, supervisioni di gruppo ed esperienze di gruppalità, giornate di studio, convegni regionali, nazionali e internazionali. Ciò nel tempo ha dato luogo alla costituzione di un Gruppo di studio formato da educatori, psicologi-psicoterapeuti, assistenti sociali, responsabili e altro personale di comunità relativo a istituzioni del privato sociale che si sono riconosciute nel modello psicoanalitico.

La nostra storia

Detto insieme di persone e istituzioni ha dunque effettuato un cammino ancora più specifico nel solco psicoanalitico e con essa abbiamo ultimato la costituzione della Federazione Nazionale Comunità a Orientamento Psicoanalitico.
Tale percorso negli ultimi anni è stato anche dettato dal ricorso alle Comunità da parte dei servizi territoriali per situazioni di bambini e adolescenti sempre più “al limite” e necessitanti nuove forme e vere di cura. Gli assistiti, inviati in tali strutture spesso più con un giudizio sommario sul comportamento connotato da ingestibilità piuttosto che con una psicodiagnosi, presentano spesso un funzionamento psichico ben noto agli ambienti psicoanalitici e conseguente alla ripetizione di traumatismi ambientali, quindi familiari o sociali (Winnicott 1958). La mente del bambino e dell’adolescente “al limite” espone infatti una ferita all’origine (Cancrini e Biondo 2012) e la conseguente drastica riduzione di capacità rappresentazionali rende il trattamento-tipo fallimentare poiché non sarebbe risolvibile nel suo setting la confusione tra oggetti reali e oggetti di transfert e tra realtà psichica e realtà tout court (Cahn 1999), come già intuì Freud (1894) ancor prima di concepire il primo modello dello psichismo, della cura psicoanalitica e del setting (1899).
Le comunità a orientamento psicoanalitico offrono invece incoraggianti potenzialità curative in quanto usano un modello (familiare) che facilita la creazione di scenari primari concreti tendenti al metaforico che in virtù delle loro caratteristiche divengono per il soggetto “al limite” significativi e investibili di affetto, di fatto inducendo i citati fenomeni transferali e controtransferali e con essi la trasformabilità del vissuto psichico tipici della esperienza psichica e di quella psicoanalitica (Baldini 2003). Dette realtà dell’aiuto quindi favoriscono nei soggetti in questione processi di psichizzazione perché non lavorano sui sintomi bensì sulle cause, riportando queste ultime a dinamiche inter e intrapsichiche e in quanto usano gli intensi affetti circolanti unicamente nella loro connotazione transferale e controtransferale.
In aggiunta, cardine concettuale del lavoro in tali comunità è il gruppo a funzione analitica.
In sintesi la mente di un bambino o adolescente al limite persevera in un funzionamento sostanzialmente arcaico-gruppale ove, al posto dell’articolata unità soggettuale descritta da Freud ne L’Io e l’Es (1922), si trova l’equivalente di un gruppo in condizioni di anonimato.
In breve e grossolana sintesi, per tale ‘gruppo’ costitutivo della psiche di un soggetto “al limite” non risulta significante il pensiero e l’opera del singolo operatore – assistente sociale, psicoterapeuta, insegnante, giudice o poliziotto che sia – ma il gruppo presente nella mente di tale professionista o, ancora meglio, qualora vi fosse, il gruppo di aiuto che realmente si relaziona con lui. Su quest’ultimo infatti il nostro assistito può proiettare parti della propria psiche non integrabili fra loro (Green 1990). Se codesto soggetto proietta dette parti di se stesso in un gruppo capace d’integrarsi nel rispetto delle indispensabili diversità, la sua mente in condizioni limite, proiettata in tale gruppo di aiuto, inizierà a integrarsi, a partire dall’analogo fenomeno agente nella mente gruppale del gruppo-adolescenti nel contesto del campo psichico gruppale condiviso col gruppo-educatori.
Il lavoro nelle comunità è espresso in termini quotidiani e pensato in termini psicodinamici con la fatica d’integrazione che tutto ciò comporta. E le difficoltà s’incrementano quando dobbiamo giustificare che sia un bene e un risultato positivo che bambino o adolescente agisca ‘finalmente’ in comunità la sua “tendenza antisociale” in quanto espressione di una valenza transferale su cui lavorare appunto trasformativamente, limitando, in parallelo, gli investimenti dell’assistito in termini di agiti sullo scenario sociale non protettivo. Implicitamente, a livello di cultura istituzionale e sociale si pretenderebbe spesso ancora la segregazione passivizzante e se un minorenne assistito “dà di matto” in comunità facilmente tale istituzione viene considerata incapace di operare.
Il modello operativo qui è stato solo molto sommariamente presentato, mentre un suo primo approfondimento è gratuitamente fruibile sul sito della Associazione Lersa e Rubin (www.lesrarubin.it) a noi vicina. La sua applicazione testata scientificamente su alta campionatura (Baldini 2007), come leggerete alla voce “cosa facciamo”, permette di raggiungere coefficienti di efficacia del 78° percentile con soggetti “al limite”, livelli molto superiori a quelli descritti dalla letteratura internazionale relativa ad applicazioni di altra modellistica.

BIBLIOGRAFIA
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